Distruggere quella passione sarebbe stato difficile ma non impossibile. Bastava solo conoscere i propri limiti, dando ad ogni respiro, un proprio confine.
E poi arriva un momento nella vita in cui puoi avere anche la “bestia” insidiata dentro. Ed è proprio quello il momento in cui sai che quella bestia deve morire. Perché ha passato il limite. Perché è andata oltre. Perché si è introdotta nel tunnel dell’indecenza, come una droga avvelena il sangue a tal punto che quel sangue, per continuare a fluire nelle vene, deve essere trasfuso, purificato, disintossicato.
Cucinava, dopo una stancante giornata di lavoro, dedicandosi con attenzione al taglio della verdura, all’apertura e chiusura delle ante dei mobili, dentro ai quali aveva ordinato le vettovaglie, piatti e fondine, diligentemente scelti in base a colore della tovaglia e dei bicchieri. Si sentiva una buona madre ed una brava moglie. Senza sensi di colpa. Perché il senso di colpa viene partorito dalla mente solo quando le linee dei confini relative ai differenti territori emotivi si sovrappongono.
A lei non era successo. Esattamente dove la prima linea finiva, iniziava la seconda. Nessuna sovrapposizione. Mai.
Mescolava il risotto. Brodo, zafferano, brodo.
Brodo….brodo….brodo…Il cucchiaio di legno gira e forma il risucchio….è importante che il riso non si attacchi ai bordi della pentola per evitare che si annerisca.
Ma gli occhi di lui avvinghiano i ricordi. Ciglia che sbattono, folti tappeti di verde smeraldo. Trasparenti e limpidi come il vetro delle biglie dentro al quale si vedono gli arcobaleni dei colori. Occhi sani e malati. Occhi sinceri e falsi. Occhi. Occhi che parlano. Occhi grandi.
Avvolta in umide lenzuola aveva sentito quegli occhi scivolarle addosso, prima con passione, poi senza ritegno. Lui disegnava. Alzava e abbassava lo sguardo sul foglio, mentre l’abile mano destra schizzava con il carboncino l’immagine sporca di una scabrosità realmente consumata. Lui sopra di lei, lei sotto di lui. Sguardi grandi e acquosi. Dolcissime e pericolose verità da tenere nascoste dentro ai ricordi.
Rapita nella spirale del risotto, dentro alla quale si vedeva il fondo della pentola, aggiunse del brodo. Poi venne distratta dall’insistente illuminazione del cellulare poggiato sul tavolo. Si pulì le mani nel grembiule. Lo prese. Lo lesse.
“forse ti amo….però solo forse”
Sentì il brivido percorrerle la spina dorsale. Adesso sapeva riconoscerlo.
Sorrise. La bestia le faceva questo effetto. Semplicemente…non ci credeva. Non c’erano le basi dell’amore, l’esistenza del concetto in se. Non c’era nemmeno un pezzetto della loro vita che potesse posizionarsi dentro a un mondo, dove il battito del cuore si nutre di ossigeno puro. Entrambi respiravano anidride carbonica pericolosa e letale. Entrambi si lanciavano nel vuoto, godendosi attimi di violente sensazioni prima che il paracadute attenuasse l’impatto al suolo.
Poteva credere a tutto, ma non credere all’amore. Non lasciarsi fondere e confondere nella violenza di quelle scosse adrenaliniche. Lui era solo ciò che non esisteva, e proprio questa inconsistenza lo rendeva onnipotente. Aveva guardato quel disegno, poi i suoi occhi, poi di nuovo il disegno.
Si era leccata le labbra, si era raccolta i capelli sudati, poi gli aveva teso la mano, facendosi consegnare l’immagine di una verità che non sarebbe mai esistita.
Aprì il frigo, prese la ciotola del formaggio grattugiato e spolverizzò il risotto giunto alla fine della sua cottura.
La bestia doveva morire. Non sarebbero andati avanti tanto in quel modo. Se quel gioco erotico non si fosse fermato, sarebbe sopraggiunto lo scempio mentale.
Poggiò il mestolo. Prese il cellulare:
“ E’ arrivato il momento di ammazzare la bestia. Addio”
Ci pensò qualche istante prima di schiacciare il tasto d’invio. Ma poi lo fece. Andava a rischio. Ma ormai il rischio non aveva potenza, confronto alla prepotenza con cui lo avevano portato all’eccesso. Sensazioni migratorie che non si sarebbero potute evolvere in nulla, perché avrebbero trovato morte naturale nello spegnersi di quel tormentato fuoco delirante.
Cosa era successo? L’acqua, con la sua potenza aveva spalancato la diga? O la diga aspettava da tempo la prepotenza del flusso?
Prese le quattro fondine e ci versò il risotto fumante
“Ragazzi, cinque minuti e si va a tavola”
Due vibrazioni del cellulare.
“Ma no….dai….”
Già. ”ma no, dai….” Ora c’è un disegno. Era il suo lavoro.
Stavano sovrapponendo la realtà, il possibile e l’impossibile. Cominciava ad esistere il desiderio di lasciare tracce. Non l’avrebbe convinta. Anche lui aveva una moglie, dei figli, una famiglia.
La bestia si sarebbe ritirata nella sua tana, fino a che il territorio fosse rimasto minato di colpevolezza. Lei non ci sarebbe più stata. Lui non avrebbe sentito più il suo profumo. Non ci sarebbero più stati liquidi, conditi di parole e sensazioni, mescolati a sacre verità di cui si erano entrambi nutriti e strafogati. Il nulla lo avrebbe inghiottito nel ruolo che aveva scelto per la sua vita artistica e privata.
Non era stato facile nemmeno per lei accettare qualcosa di forte, da aggiungere ad un matrimonio felice e appagante. Quindici anni di assoluta fedeltà per poi trovarsi a fare i conti con una passione sana, malata, sana e malata.
Impossibile voler dimenticare. Non si poteva dimenticare nulla.
Si sedette a tavola e respirò l’odore della sua casa e della sua famiglia. Le rughe asciutte del viso di suo marito, le chiacchiere quotidiane dei suoi figli, la legna bruciacchiante nel camino, la sigla del telegiornale, il cane accucciato sul tappeto. Quella era la sua vita.
In un’isola assolata si può fare tutto. Se tutto si vuole fare. Il mare che delimita uno spazio, uno spazio delimitato da quattro pareti di una stanza d’albergo, due anime che cercano una via di fuga.
Eccolo il disegno. Il suo corpo è sopra quello di lei. Ed il foglio è bianco e pulito e così deve restare. Perché quel disegno appartiene solo a loro. E invece lui aveva iniziato a tracciare le immagini della verità. Poi le aveva detto:
“Questo quadro nasconde il segreto della passione: la menzogna.”
Pensò che era vero. I buoni sentimenti vivono solo sotto le lenzuola famigliari. Quello che lui voleva dipingere erano bugie, condite di fiori, odori e complicità.
Sparecchiò stancamente.
Buttò uno sguardo al cellulare. Nessun messaggio. La bestia ruggiva. Aveva fame.
Tovaglioli, bicchieri, posate, acqua, vino…
Voleva ricordare qualcosa
“Non farlo, non lo voglio”
“Si che lo vuoi….”
“No, non lo voglio”
Come si finisce dentro a una vita che non ci appartiene, consapevolmente felici dei propri vergognosi desideri?
Avevano entrambi cercato risposte a domande senza risposta. Lui si era confidato e rivelato. E lei gli aveva dato l’assoluzione, indispensabile per giustificare il senso di colpa.
Al sorgere dell’alba si era rivestita. Ricordava che nel breve sonno lui l’aveva tenuta stretta. Si era divincolata e gli aveva baciato le mani sporche di carboncino, le braccia forti, i capelli sottili.
Ma lui l’aveva ripresa
“Ti prego….. Resta qui”
Si slegò il grembiule e lo appese alla parete. Spostò la tenda della finestra. Pioveva….
Si era ritirata nella sua camera alle sei del mattino, respirando profumi e sensazioni di una vita passata. Alle dieci aveva chiamato la sua famiglia.
Dopo un’ora volava sopra il mare. Alla sera lui le mandava baci per telefono mentre lei era già a casa, abbracciata a suo marito.
Pensò ancora per un attimo a lui, e a ciò che non sarebbe mai potuto essere o divenire. E lei non sarebbe mai riuscita a convivere con i rimpianti, ed ancor meno con i rimorsi.
“Dalla tua borsa è scivolato fuori questo disegno – le disse il marito entrando in cucina – lo stava srotolando osservandolo con molta attenzione – è di uno dei tuoi artisti?”
Si avvicinò a osservare il disegno che suo marito teneva in mano senza percepire nella leggerezza della carta la pesantezza della verità . “si, è uno schizzo che Mark ha fatto durante uno dei suoi viaggi.
“Lei ha un’espressione meravigliosa” – disse il marito rapito “trasmette estasi, passione, sensualità. Ti ho sempre detto che quel ragazzo ha del gran talento!!!”
Riavvolse a pergamena il piccolo schizzo, andò in sala e lo gettò nel camino. Lo guardò fino a che il fuoco non lo rese totalmente cenere. Erano già due mesi che la tela era in esposizione alla Triennale. Erano tre mesi che la critica si chiedeva perché l’autore lo avesse chiamato “la bestia dentro”.