Anche oggi non so dove andrò, in quale viaggio mentale sarò trascinata, quali saranno i miei impulsi quando deciderò di rinunciare all’attacco di panico, dirigermi delirante verso il portellone già serrato e urlare inferocita di farmi scendere da quel maledetto aereo.
Di nuovo accetterò la mia discesa verso l’inferno.
L’inferno di una metropoli che mi opprime e mi eccita, con le sue nebbie uggiose, i suoi soli pallidi ed efebici, quei suoi fetori di cemento bagnato o trasudante calore. Amo e odio Milano. Amo e odio Linate. Malpensa non ha senso. E’ fuori. Fuori dai tunnel della metropolitana, collegata da un treno veloce oltreconfine che attraversa zone troppo paludose per appartenere alla mia città.
Malpensa è oltre città, ed il gioco non ha più senso, perchè quando arrivo li, da Milano, mi sono già svincolata. Linate invece ha il potere di scollarmi di dosso la città e di illustrarmela in tutta la sua stupida importanza manageriale che il decollo miniaturizza con il suo trascorrere.
Cerco sempre casa mia con il naso schiacciato contro la sporcizia della plastica dell’oblo, partendo da Viale Forlanini, per arrivare alle guglie del Duomo, cercare ansiosa il Castello Sforzesco, il tappeto verde (ed unico) del Parco Sempione, l’antenna della Rai e cercare un puntino blu che corrisponde alla piscina di casa mia, nascosta dall’imponenza delle terribili ed elegantissime torri che la soffocano. Utopia.
La mia ricerca è sempre più lenta, il mio sguardo pigro e perdente nella partita con il decollo.
Arrivo al Duomo, poi mi perdo. Perdo me stessa e la strada di casa.
Oggi ci riprovo. Ho il Prozac nelle tasche dei jeans. I cani della sicurezza non stanano il Prozac ed io mi sento uno spacciatore propenso al consumo della sua stessa merce.
Godo e tremo al solo pensiero del decollo e dell’atterraggio in questo stupido aeroporto, troppo poco caotico e orrendamente pulito, con il rombo degli aerei troppo leggero per trapassare il giusto decibel consentito dall’inquinamento acustico.
Quel pazzo del mio terapista me lo aveva prescritto. “Pre” come predetto, “Scritto” come fanno loro quando al posto di spiegarti, cercano di curarti.
La cura: A/R Milano-Roma: una volta la settimana per tre mesi.
Peccato che la mutua non passi i voli aerei. Dovrebbe, se è questo il modo per guarire dagli attacchi di panico. Ci sono. Appoggio la mia borsa sul tapis-roulant del metal detector.
Ci ho messo dentro il phon, perchè dentro a quei monitor che quello della sicurezza fa finta di guardare mentre si scambia battute e occhiolini con la collega della postazione vicina, può sembrare una rivoltella.
E non mi sono tolta nulla dalle tasche dei jeans, nemmeno la cintura, perchè voglio perdere un po’ di tempo, voglio far perdere un po’ di pazienza, voglio far perdere il volo a quell’impaziente del mio compagno di viaggio che ha fretta, voglio perdere il volo. Il volo, il volo!!
Ho le mani di qualcuno sotto le mie ascelle sudate. Mastico il cuore che ha un pessimo sapore, mentre suonano le campane, che non sono quelle della messa. Sono suoni metallici e ferrosi, carrelli del supermercato che si incastrano con catenelle che sputano monete da mettere nella mano rugosa della zingara accucciata sul marciapiede con i piedi freddi infilati dentro al pelo dei suoi cani al guinzaglio.
Mi apriranno il portellone spingendomi fuori dal fetore della paura.
Lanceranno le mie valigie sull’ambulanza diretta al piu vicino centro psichiatrico.
La sirena viaggia tra clacson e brusche fermate di tram che cigolano dentro a rotaie arrugginite. Ho la maschera di zorro legata al viso, veleno per non morire. Un mantello bianco. Forse andrò in Duomo a gettare coriandoli sulla faccia truccata di qualche fatina. O forse festeggerò Hallowen al Plastic di Viale Marche, sempre che Pino, il buttafuori, per una volta mi riconosca e decida di farmi passare aprendo il cordone dei disperati che alle tre del mattino non hanno voglia di mettersi in branda.
C’è anche Doctor House che mi schiaffeggia. Finalmente un tossico mi elargisce una dose di eroina che mi entra sparata in vena e mi porta nell’oblio dell’esistenza.
Ed ecco Milano dall’alto. Ferma, immobile, sempre più vicina, sempre più vera, sempre più mia.
La posso chiudere dentro al palmo della mia mano, trasformarla in un puzzle senza pezzi mancanti.
Scalino dopo scalino poggio la pianta del piede sulla globo.
Ecco che sono sul taxi. Ecco il traffico, l’odore maleodorante dell’inquinamento, del piscio e degli escrementi dei cani, dei profumi del cibo precotto, di una natura ingabbiata che fa fatica a trovare l’ossigeno per la sopravvivenza.
Ecco la mia città. Ecco che finalmente sono arrivata a casa.
La mia custode mi saluta con la giusta riverenza di chi ha accettato di vivere nell’unico monolocale a pianterreno di una casa con appartamenti spaziosi e prestigiosi concessi solo a chi lavora negli uffici di Galleria del Corso.
“Ha fatto buon viaggio Signora Testori?”
“Ottimo, Laura. Grazie. Buona giornata”
di Stefania Bonomi
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